IL BEATO ENRICO E IL SUO TEMPO

 La mostra sul Beato Enrico nasce da due diverse esigenze: da una parte il grande piacere di ricordare questo splendido personaggio nato 770 anni fa, dall’altra il desiderio di far conoscere un suo ritratto affrescato all’interno della pieve di Santa Giustina e che è stato realizzato pochi anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1315. Dunque un elemento iconografico di grandissima importanza. Enrico, originario di Bolzano, si trasferisce nel corso della sua vita a Treviso con la moglie e il figlio Lorenzo. Dopo la morte di lei e del figlio, dedica la sua vita ai poveri con i quali scambia il pane che riceve caritatevolmente dagli abitanti della città. Esempio fulgido di uomo ad immagine di Cristo, alla sua morte, le campane di Treviso suonano senza essere toccate. A lui vengono attribuiti moltissimi miracoli, ma il più sorprendente è quello legato al suo sangue che si trova in un’ampolla conservata nel Duomo di Treviso. Ancora oggi si mostra vivido e incorrotto dopo secoli. Il suo corpo è custodito sempre nel Duomo da cui, nel 1759, vennero prelevate due costole per essere portate a Bolzano. Il culto del beato Enrico fu approvato da Benedetto XIV nel 1750 per la diocesi di Treviso e agli inizi dell’800 da Pio VII per la diocesi di Trento e Bolzano. Boccaccio e Gabriele D’Annunzio lo ricordano sulle loro opere.

Nella mostra il visitatore troverà un testo, una sorta di intervista tra un ignoto pellegrino ed Enrico. Fra domande e risposte Enrico ci porterà nel suo tempo, raccontandoci fatti, eventi, aneddoti e curiosità di un’epoca che ha fortemente caratterizzato l’Europa, la società e gli uomini.

IL BEATO ENRICO E IL SUO TEMPO

 Enrico nasce a Bolzano intorno al 1250. Di mestiere fa il boscaiolo. Da adulto si sposa e ha un figlio a cui darà il nome di Lorenzo. La famiglia si porta a Roma per un pellegrinaggio e al ritorno si ferma a Treviso. Qui continua la sua attività di boscaiolo. In età avanzata rimane vedovo e poco dopo muore anche Lorenzo. A quel punto si dedica completamente ad una vita fatta di povertà ed elemosine. Vive in una piccola cella dove mortifica il proprio corpo con penitenze e digiuni. Durante il giorno chiede del cibo per poi dividerlo coi più bisognosi. Alla sua morte, il 10 giugno del 1315, accadono cose meravigliose e da molte parti accorrono fedeli per poter toccare o soltanto vedere le spoglie di Enrico. Al grido di “E’ morto un santo” Treviso riscopre il valore della vita di quest’uomo. Il suo corpo giace nella cattedrale della città, meta di moltissimi pellegrini che da molte parti d’Italia e dall’estero vengono a pregare sulla tomba. A lui si attribuiscono 348 miracoli avvenuti sia in vita che dopo la morte.

 

Pellegrino:  E’ tutto giusto quello che ho detto Enrico?
Enrico: Sì, sì, è giusto, ma non sono queste le cose importanti.

P.: E quali allora?

E.: Io non sono l’uomo dei miracoli, né tantomeno l’esempio da seguire. Ho cercato soltanto di dimostrare quanto fosse importante la carità. E’ attraverso essa che il nostro cuore raggiunge stati di purezza. E’ attraverso la bontà che si ottengono i veri miracoli, quelli di tutti i giorni, quelli che esistono grazie alla mitezza del gesto. Quello di dividere il pane non è soltanto un nostro dovere, ma la salvezza del nostro spirito che solo così si illumina del piacere di Dio. E se Dio è in me, non esiste azione che possa essere chiamata ‘dovere’. La nostra responsabilità sta nel dimostrare a noi stessi che i nostri segni sono scelte libere e che dipendono soltanto dalla compiacenza del nostro cuore.

P.: Per essere un boscaiolo, non ti manca certo la bellezza di un buon linguaggio.

E.: Non è la mia lingua a pronunciare i suoni, io esprimo solo quello che ho provato nel darmi al prossimo.

P.: Resta il fatto che ti esprimi bene e anche questa era una delle tue peculiarità in vita. Riuscivi ad affascinare con un linguaggio ricco di sensazioni. Ma torniamo alla tua storia. Così tu, Enrico, sei nato intorno al 1250. E’ un anno importante per la storia.

E.: Oh sì, davvero un anno importante. In quell’anno morì il grande Federico II di Svevia. Con lui morì il sogno imperiale di unificazione di Italia e Germania sotto uno stesso titolo. I suoi figli, Manfredi e Corradino morirono giovani e l’Europa cadde nel buio. Magnifico personaggio Federico. Nacque il 26 dicembre del 1194. Sua madre era Costanza d’Altavilla, regina dei Normanni. Pensa, dopo essere stato incoronato imperatore dal papa Onorio III (1150 ca. – 1227), Federico assolse ad una promessa fatta proprio al papa: una crociata in Terra Santa! Beh, lui partì e, in effetti, conquistò Gerusalemme dove si fece incoronare re. Tutti contenti? Per niente. Federico conquistò la città di Dio con la diplomazia, accordandosi con il sultano d’Egitto. Il papa si indignò, parlò di terribile compravendita e si sa, Federico ammirava la cultura musulmana. Gregorio IX (1170 ca. – 1241), che successe a Onorio, al suo ritorno in Italia lanciò contro di lui il suo esercito, ma alla fine fecero la pace, ad Anagni, mi hanno detto, nel 1230. Federico era un illuminato. Fu lui a redigere il Liber augustalis, un trattato giuridico e legislativo meraviglioso. Principalmente dice che nelle aule dei tribunali nessuna distinzione dovrà essere mai fatta nel giudicare gli uomini, siano essi Franchi, Longobardi, Ebrei o Saraceni. La pace nel regno dipende dalla giustizia e non può tollerare differenze di religione o di nascita.

P.: Come fai a conoscere tante cose, Enrico?

E.: Traggo profitto dal mio silenzio per ascoltare.

P.: Comunque Federico ha avuto anche una vita militare intensa, giusto?

E.: Giusto! Assieme alle città di Verona e Cremona, batté i Milanesi nel 1237 distruggendo il Carroccio, simbolo del Comune milanese, ma poi a Parma, nel 1248, subì la sua più grave sconfitta. L’anno dopo, suo figlio Enzo, venne fatto prigioniero a Bologna, e nonostante gli ingenti riscatti proposti da Federico, Enzo morì in carcere dopo 23 anni di prigionia. Uno dei suoi più tenaci avversari è stato il papa Innocenzo IV (1195 ca. – 1254). C’era in ballo la lotta tra potere temporale della chiesa e quello secolare dell’imperatore. Quante guerre, quanti morti, quanta violenza. Papa Innocenzo scomunicò Federico. Alla morte di quest’ultimo, il papa dichiarò ai cristiani: “il Cielo e la terra si rallegrano per la sua scomparsa”.

P.: Dopo la sua morte cosa accadde?

E.: A Federico succedette Corrado IV di Svevia, che morì poco dopo nel 1254, dopo di che, ci fu un periodo di grandi lotte e di miserie, il “grande interregno”. Sai quanto distruttiva era la guerra per le popolazioni innocenti?

P.: Beh, immagino…

E.: No. Non puoi neppure lontanamente immaginare. Comunque furono gli Asburgo a chiudere quel periodo. Rodolfo I (1218 – 1291) venne eletto re di Germania e Rex Romanorum. Succedeva nel 1273. Io allora avevo 23 anni.

P.: Come si viveva ai tuoi tempi?

E.: Io ho fatto una vita di fatica e di lavoro, e dopo la morte dei miei familiari, ho fatto delle scelte molto radicali, il più possibile vicine all’insegnamento di Cristo, ma intorno a me la vita era molto diversa. Devi sapere che verso il 1300 le condizioni della gente erano migliorate. Le città si ingrandivano sempre più, merito delle istituzioni, di una relativa pace e di leggi capaci di salvaguardare il cittadino. In quel tempo il clima era mite e le campagne producevano molto. C’era un sacerdote, Giordano da Pisa (1260 – 1311) che aveva detto: “L’uomo è detto animale soziale e congregale… e questa fue cagione perché si facieno le castella e le cittadi”.

P.: E’ in lingua volgare, vero?

E.: Sì, la lingua del popolo.

P.: Tornando alla vita quotidiana, cosa puoi dirmi?

E.: A parte castelli e importanti palazzi, la gente viveva in alloggi angusti e poco illuminati, così quasi tutto il tempo lo si passava fuori casa. Le strade e le piazze erano sempre gremite di persone che parlavano, passeggiavano e commerciavano. Era molto bello. Nelle case, al pian terreno c’era normalmente una grande stanza dove si poteva lavorare e cucinare. Al piano sopra, la camera da letto. Spesso padroni e servi mangiavano e dormivano assieme. Il letto era il mobile più rilevante della casa perché definiva l’importanza della persona. Era sempre in legno. Sopra un intreccio di corde veniva messo un pagliericcio imbottito di paglia, piccole balle di grano e foglie di pisello. Da noi usavamo una trapunta di lana per coprirci, ma so che nei paesi del nord usavano delle pellicce. Il letto era largo perché bisognava starci tutti.

P.: Come tutti?

E.: Certo, tutta la famiglia tranne i neonati. Si dormiva bene, con la schiena ben appoggiata alla testiera.

P.: Come, non vi sdraiavate completamente?

E.: Mio Dio, no! Quella è la posizione dei morti!

P.: E gli armadi?

E.: Armadi? No, avevamo le cassapanche. Lì dentro si metteva tutto quello che avevamo, vestiti, materiali diversi, armi, cibo.

P.: I vestiti assieme al cibo?

E.: Certo. L’aria nelle stanze era piena di fumo dei focolari. I camini li avevano soltanto i signori, camini con la cappa sopra, sai? Un’invenzione della mia epoca!

P.: E non c’era il rischio che si sviluppasse un incendio?

E.: Gli incendi di case, di quartieri o di intere città, erano all’ordine del giorno!

P.: E gli abiti?

E.: Gli abiti dovevano essere sempre congrui allo stato sociale. Mettere un abito più ricco voleva dire commettere un peccato di ambizione. Certe signore usavano sopra-vesti attillate. Sembravano tutte più alte. Cominciavano a vedersi i bottoni. Grande invenzione! Certo, le più ricche potevano permettersi colori sgargianti, mentre mia moglie usava solo panni di lino o canapa dai colori smorti. I bei giovani usavano invece abiti corti e lunghe calze. I più maturi invece non rinunciavano alla pellanda, un sopra abito molto largo e lungo fino a terra. Se vedevi uomini con la toga allora erano dottori o commercianti. Ai piedi si potevano usare stivali, stivaletti o pianelle, scarpe basse e comode. In casa era diverso; si usavano delle vestaglie chiamate turchesse coperte, a loro volta da mantelli, anche di pelliccia.

P.: E cosa mangiavate di solito?

E.: Quando facevo il boscaiolo, il cibo non era mai abbastanza. Mangiavano moltissimi cereali, ma ai miei tempi ha cominciato a circolare la pasta fatta con la farina di granoturco. Pensa, un mio vecchio amico siciliano mi diceva che a Palermo si distingueva il prezzo della pasta fresca da quella secca: i maccaruni blanki di symula e lasagni di symula costavano meno dei maccaruni blanki di farina e lasagni di farina.

P.: C’erano anche feste e giochi, giusto?

E.: Molto spesso. Le feste servivano per illudere il popolo che il signore concedesse libertà e i giochi erano il vero unico svago delle persone, ma con tanti problemi.

P.: In che senso?

E.: Tutta una serie di discussioni sulla liceità dei giochi. La Chiesa era molto severa, ma ad un certo punto, pur condannando i giochi d’azzardo perché oltre ai guadagni derivanti causavano ozio e improduttività, salvarono i giochi legati a tornei o esercizi perché erano moralmente utili legittimandone le vincite. Alla fine, per le autorità, era sufficiente che vi fossero delle leggi a tutela dei premi. Quando ero piccolo, cominciarono a comparire, in diverse città, delle case da gioco. L’autorità pubblica, in tal modo, ne controllava la gestione, tassando le vincite. Tutti erano contenti perché così si avallava il gioco d’azzardo.

P.: Difficile immaginarti piccolo quando tutta l’iconografia esistente sulla tua figura ti ritrae anziano.

E.: Già. Solo i grandi Signori erano talvolta ritratti. Noi poveri rimanevamo anonimi. Il vero miracolo è quel dipinto che si trova nella chiesa pievana di Santa Giustina a Palazzolo. E’ stato fatto pochi anni dopo la mia morte e forse è stato dipinto seguendo le indicazioni di qualcuno che mi aveva conosciuto da vivo.

P.: Prima hai parlato della crociata di Federico di Svevia. Dopo di lui ne sono state fatte altre, ma sempre con esiti disastrosi.

E.: E’ vero! Ma questo forse è stato un bene. L’ultima crociata, l’ottava (1270), fu condotta dal re francese Luigi IX (1214 – 1270). Egli e gran parte del suo esercito morirono per la peste. La voglia di continuare a combattere in Terra Santa venne meno e questo portò a costruire nuovi equilibri in Europa che portarono ad una vita economica più vivace e alla costituzione delle prime signorie. Le città erano spesso governate da un podestà, tranne Venezia che, proprio in quel periodo, si avviava ad un’ascesa inarrestabile.

P.: Era anche il tempo delle repubbliche marinare.

E.: Proprio così. Che lotte sanguinose! Pisa e Genova continuavano a contrapporsi. Alla fine, nel 1284, i pisani vennero sconfitti. Lo scontro successivo avvenne tra genovesi e veneziani con la sconfitta dei primi  nel 1258. E poi ancora fino al 1298, quando furono i veneziani ad essere battuti. Tutto questo per cosa? Per il denaro, per avere la supremazia dei commerci, per arricchire pochi a danno dei molti.

P.: Comunque le città, in genere, cominciarono a vivere un periodo florido, giusto?

E.: Certo, ma non manchevole di conflitti interni. Proprio a cominciare dalla fine del 1200, le istituzioni comunali furono sempre più in conflitto con i nuovi gruppi dirigenti. Firenze, poi, fu un caso piuttosto eloquente, dove governi di popolo e esperienze signorili, si alternarono a seconda delle esigenze e delle circostanze. Non mancarono le lotte come quella tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati che portarono al bando dalla città delle famiglie filo ghibelline legate all’imperatore. Tra gli esiliati vi era pure Dante Alighieri, il più grande poeta e scrittore del Medioevo. Sai come si chiamava Dante da battezzato?

P.: No.

E.: Durante Alighiero degli Alighieri. E’ morto poco dopo di me, nel 1321.

P.: Ma torniamo un attimo alle signorie. Epoca illustre o oscura?

E.: Dipendeva dai personaggi dominanti. Pensa che quando avevo 9 anni, morì Ezzelino da Romano (1194 – 1259), uno dei primi signori ad accentrare su di sé un vasto potere. In poco più di 30 anni riuscì ad estendere la sua autorità su Treviso, Verona, Padova, Belluno e Vicenza. Era soprannominato “il crudele”. Si dicevano molte cose su di lui, non credo fossero tutte vere, ma il suo carattere e il suo potere lo portarono a compiere atti terribili come quando fece incendiare la città di Montagnana. Sposò una figlia di Federico II di nome Selvaggia. Morto l’imperatore, Ezzelino si trovò addosso tutta la nobiltà legata al papato. A Cassano d’Adda venne sconfitto. Secondo alcune storie che si raccontavano, venne ferito gravemente da Mazzoldo Lavellongo che così si era vendicato del fratello che era stato torturato, mutilato e accecato proprio da Ezzelino. Venne catturato e imprigionato. Sul letto di morte rifiutò medicine e sacramenti. E’ stato sepolto nel castello di Soncino, vicino a Cremona, assieme, si dice, ad un immenso tesoro.

P.: Dicevi prima che dopo la morte di Federico II c’è stato un interregno durato fino al 1273.

E.: Eh sì, storia oscura quella. La Germania era scossa da molte lotte e dei nove imperatori succeduti a Rodolfo d’Asburgo, solo tre ottennero una vera dignità imperiale. Tra questi, Enrico VII (1275 – 1313) che nel 1310 scese in Italia per farsi incoronare re a Milano e poi imperatore a Roma. Il vero distacco tra il potere imperiale e il riconoscimento papale arrivò con Ludovico il Bavaro (1282 – 1347) che si fece incoronare, scandalosamente, da un nobile della famiglia dei Colonna. Fu una mutazione dei tempi e il papato subì l’arroganza del potere secolare. Ti racconto una cosa interessante che appartiene alla fine della mia epoca. I cantoni svizzeri di Uri e Schwyz godevano un tempo della protezione imperiale contro gli Asburgo. Questi ultimi, raggiunto il potere, vollero costituire un forte principato anche a ridosso del lago dei Quattro Cantoni. I dignitari di Uri e Schwyz, assieme al cantone di Unterwald, pronunciarono il giuramento di Rüttli che sanciva un patto di reciproco aiuto in caso di attacco. Era il 1291 e nasceva la Confederazione Elvetica. Proprio Enrico VII, quello che era sceso in Italia, voleva la conferma della dipendenza dei Cantoni nei confronti dell’impero. Gli svizzeri non firmarono e il duca Leopoldo d’Austria mosse i suoi eserciti contro i Cantoni. A Morcarten, nel 1315, l’anno della mia morte, gli svizzeri sconfissero gli Asburgo e da allora quel paese montagnoso rimase libero.

P.: Tutte queste guerre e presenza di militari in tante zone d’Europa deve aver creato gravi problemi soprattutto nell’economia rurale.

E.: Da un certo punto di vista sì, ma da un altro direi di no.

P.: In che senso?

E.: La guerra non era presente con continuità, quotidianamente, e nel frattempo la popolazione doveva trovare i modi per sopravvivere. Il XIII secolo è stato considerato da molti un periodo speciale, di grande rinnovamento e favorevole ai commerci e all’agricoltura. A differenza dei tempi precedenti, quando i contadini erano considerati soltanto strumento del potere, nella mia epoca erano visti più come una risorsa economica. Si diffondono persino trattati di agronomia. E’ anche l’epoca di un rinnovamento nel campo delle produzioni minerarie e manifatturiere. La cosa più interessante era che ogni area geografica produceva qualcosa di cui le altre aree avevano bisogno e viceversa. Era uno spettacolo vedere tanti viandanti, commercianti e artigiani girare il mondo. Una delle cose più privilegiate era il vino. Pensa che si usava addirittura come unità di misura, il barile. In Francia, in Guascogna, si producevano tra gli 80 e i 100 mila barili che venivano in gran parte destinati all’Inghilterra, la quale, a sua volta esportava tonnellate di tessuti e lana a mezza Europa. Così funzionava! A proposito di tessuti, devi sapere che circolava di tutto: cotone, lino, canapa, seta. Il cotone, in particolare, era prodotto nei paesi mediterranei. Il migliore era quello Siriano che Venezia e Genova compravano in grandi quantità per produrre il fustagno, un panno spesso, resistente ed economico che usavamo un po’ tutti. La seta la usavano solo i ricchi. Quella di Lucca era tra le più preziose. Storia diversa è quella della lana. La produzione, quando io ero giovane, si svolgeva soprattutto nelle Fiandre, ma ad un certo punto i rapporti tra questo paese e l’Inghilterra che importava grandi quantità di panno, si complicarono. Numerosi fabbricanti emigrarono nelle città italiane. In queste non erano previsti particolari dazi, c’era una grande disponibilità di tinture orientali e molti soldi per mettere in piedi grandi produzioni. In poco tempo le città italiane raggiunsero una posizione di vertice nella produzione europea. Tra queste c’erano anche Verona e Treviso. Del resto, era stato appena introdotto il filatoio a ruota che permise una maggiore produzione di pezze.

P.: Parlavi anche dello sfruttamento minerario.

E.: Un altro miracolo. Ad un certo punto spuntarono ovunque miniere che fruttavano oro, argento, rame, ferro e persino stagno e piombo. I minatori erano persone privilegiate.

P.: In che modo?

E.: Erano come comunità indipendenti che si differenziavano dagli agricoltori o dai pastori. Avevano leggi che ne governavano e tutelavano il lavoro, erano esentati dalle tasse e potevano macellare la carne, potevano cuocere pane e produrre birra. Tutto ciò avveniva attraverso codici scritti. Ho sentito dire che il più antico risaliva al 1185, redatto nella città di Trento.

P.: Sembra tutto molto bello.

E.: Una visione sbagliata mio caro. La gente del Medioevo, in realtà, pensava solo a rifuggire il proprio tempo. Fra le tante paure che aveva, la più debole era quella della morte. Un concetto assente sui grandi dipinti che abbellivano le chiese prima del secolo XIV.

Proprio dopo gli anni del mio trapasso le cose cominciarono ad andare male. I contadini, le cui proprietà si assottigliavano sempre più, facevano fatica a sopravvivere, mentre il prezzo dei cereali, nel giro di 50 anni, era più che raddoppiato. Molti di loro persero la terra trasformandosi in semplici braccianti al soldo di ricchi borghesi che approfittavano di acquistare terreni a basso prezzo. Attraverso questi meccanismi, che videro crollare il sostegno economico della classe contadina alla società, cominciò la crisi del XIV secolo, aggravata da carestie, povertà e la peste.

P.: Ma chi erano questi nuovi borghesi?

E.: Erano i nuovi ricchi, quelli che prima magari erano contadini o proprietari terrieri e diventarono, attraverso svariati meccanismi, artigiani, mercanti, osti, persino notai o banchieri. Abitavano in città dove, tra diritti e doveri, partecipavano al governo cittadino contribuendo alle spese necessarie per la costruzione di edifici o opere di difesa. Erano i nobili che abitavano nelle loro belle residenze in campagna.

P.: Hai parlato della peste. E’ stata una cosa terribile, vero?

E.: Io non l’ho vissuta per mia fortuna, ma quello che successe dal 1348 in poi fu una delle più grandi disgrazie dell’umanità. In Europa una persona su tre morì di peste. Non c’erano cure, pertanto si cercavano le cause nelle cose più bizzarre, come nelle congiunzioni astrali negative, nel furore divino o nel veleno che gli ebrei gettavano di notte nei pozzi. Poi si è capito. Il bacillo della peste era trasmesso agli esseri umani dalle pulci dei ratti. Sembrava che tutto fosse iniziato nelle regioni himalayane. Fu l’impero mongolo che iniziò a contagiare le altre regioni attraverso i contatti tra Asia ed Europa. Ma non c’era solo la peste. La carestia era ancora peggio. Se per due o tre stagioni si otteneva un cattivo raccolto, allora cominciava il peggio. Non avevamo sistemi di trasporti o di distribuzione che potessero sopperire alla mancanza di viveri. La fame era una delle paure più grandi della mia epoca. Se tu leggessi le cronache di Rodolfo il Glabro, che era monaco di Cluny nella Francia dell’XI secolo, rimarresti angosciato da quello che può indurci a fare la fame. Uomini che mangiavano qualsiasi erba, cortecce di alberi, carogne di animali e persino gli stessi esseri umani. Alcuni mischiavano dell’argilla bianca alla poca farina presente per sfornare pani mefitici, altri dissotterravano i morti pur di calmare la fame. E sai chi ci rimetteva di più in queste tragedie? Noi poveri. Durante le carestie diventavamo il peso superfluo delle città. Sai cosa accadde a Genova pochi decenni prima della mia morte? Durante una carestia venne detto ai poveri che avrebbero ricevuto del pane. Essi vennero radunati alla riva e, fatti salire su delle galee, li portarono in Sardegna per essere lasciati lì. E le malattie? Lo sai quante malattie c’erano nel mio tempo?

P.: Posso immaginarlo…

E.: No, non puoi. Ho sentito di persone morte per il Fuoco di San Antonio che tu conoscerai. Ma conosci anche il Fuoco di San Lorenzo o il Fuoco di San Silvano? E la tubercolosi? Ha mietuto un numero di vittime incalcolabile. E poi ancora la scabbia, la lebbra, le ulcere, le malattie mentali…

P.: Basta. E’ terribile tutto questo. La visione che avevo del Medioevo sta cambiando nel modo peggiore.

E.: Beh, un aspetto positivo però c’è stato.

P.: E sarebbe?

E.: Sono stati inventati gli occhiali.

P.: Non mi sembra un granché…

E.: Ti sbagli. Sai quante persone sono riuscite a mantenere il proprio lavoro con questa novità?

P.: Capisco. Ma tornando ai poveri, da quello che so, tu non hai avuto molti problemi a Treviso. Le persone ti aiutavano, ricevevi sempre della carità.

E.: Il povero, nei tempi buoni, aveva una caratteristica che non immagini. Era diventato immagine di Cristo e strumento di salvezza per i ricchi. Non solo: fu la stessa povertà a divenire un nuovo stimolo di vita.

P.: E’ stato il tuo caso?

E.: No. Io ero povero e basta. Non fu una mia scelta. Intorno a me, però, la povertà cominciò ad esercitare un certo “fascino”. Fu proprio nel mio tempo che nacquero, per esempio, le Confraternite, associazioni di laici, uomini e donne a scopo religioso. Erano persone di diverso ceto sociale che provvedevano, all’interno di parrocchie, conventi o oratori, alla promozione del messaggio evangelico e all’esercizio della carità. Come i laudesi di Perugia che si adoperavano per cantare laudi alla Vergine Maria in vernacolo, in modo che tutti potessero comprendere i testi dei canti. Molte di queste confraternite si rivolgevano ai più bisognosi con la distribuzione di pasti, vestiti ed elemosine. Era un modo per imitare Cristo. In tutte le città c’erano Confraternite. Erano di gran moda! Del resto, tutto stava cambiando. Una nuova e rinnovata devozione mariana, il successo delle reliquie giunte in Occidente con la quarta crociata, i nuovi ordini religiosi che si aprivano al mondo fondando monasteri a ridosso delle città. Non più monaci in stato contemplativo, ma monaci e monache impegnati nell’aiutare il prossimo. Certo ogni tanto qualcuno esagerava, come i Fratelli del libero Spirito che il papa Clemente V condannò severamente.

P.: Parli anche di San Francesco, giusto?

E.: Francesco… il meraviglioso Francesco (1181 – 1226). Mi commuovo ogni volta che penso alla sua umile e grandiosa figura. Lui all’inizio creò solo una fraternita di penitenti, divenuti frati minori con l’approvazione del papa Innocenzo III (1161 – 1216), assieme alle Pauperes dominae di Santa Chiara. Da pochi che erano all’inizio, divennero una moltitudine al punto che quando Francesco tornò dalla Terra Santa, trovò dissidi e disordini. Dopo la sua morte cominciano i contrasti più gravi e avvenne una scissione, da una parte i più pragmatici e graditi a Roma, dall’altra i più intransigenti che volevano rispettare la regola di non possedere alcun bene, conformemente all’esempio di Cristo. Questi erano i cosiddetti “spirituali”, al limite dell’eresia. Sai come è andata? Il papa Giovanni XXII, nel 1318, condannò come ereticale il riferimento scritturale alla povertà di Cristo. Michele da Cesena (1270 – 1342), allora padre generale dei Francescani, ebbe una reazione violenta, ma venne destituito e fuggì a Monaco di Baviera, sotto la protezione di Ludovico il Bavaro. Ma ci fu di peggio! Tra gli extra ecclesiam, c’era un certo Gherardo Segarelli (? – 1300). Sulle indicazioni del Vangelo di Matteo, diede vita al movimento degli Apostolici che volevano conseguire il modello della Chiesa primitiva. Era il 1260, io avevo 10 anni. Essi chiedevano ai propri adepti di spogliarsi di ogni bene, di non preoccuparsi del domani, di avere per vestito solo una rozza tunica, di predicare, anche se laici, e di non avere fissa dimora. Per tutto questo Gherardo finì sul rogo nel 1300. Un suo discepolo, Dolcino da Novara (1250 ca. – 1307) si fece promotore di un movimento ancora più radicale, richiamandosi alle profezie di Giacchino da Fiore (1130 ca. – 1202) che ti consiglio vivamente di leggere. Per anni i dolciniani si accanirono contro i più ricchi con saccheggi e delitti. Erano quasi in 4 mila quando si rifugiarono sul monte di Parete Calva, nel novarese. Vennero decimati dalle truppe mercenarie al servizio dei vescovi di Vercelli e Novara. I pochi superstiti riuscirono a fuggire rifugiandosi sul monte Rubello, nella terra di Biella. Furono tutti catturati tra cui frate Dolcino e vennero messi a morte fra inenarrabili supplizi.

P.: Impressionante tutto ciò. Oltre ai Francescani ci furono anche i Domenicani.

E.: Certo, anche loro. Il loro fondatore fu Domenico di Guzman (1170 – 1221). Il papa Onorio III, nel 1226, riconobbe ufficialmente l’ordine ed essi diventarono i custodi più integerrimi dell’ortodossia, i “mastini del Signore”, Domini canes.  A differenza dei Francescani, i Domenicani rimasero sempre compatti.

P.: I Domenicani furono incaricati di diventare ufficiali della Santa Inquisizione, giusto?

E.: Sia Francescani che Domenicani, ma questi ultimi ebbero maggiore importanza.

P.: L’inquisizione faceva paura un po’ a tutti.

E.: Beh, la condanna delle eresie risaliva ancora ai tempi dell’imperatore Costantino il Grande. Fu il papa Innocenzo III (1160 – 1216) ad emanare la bolla Vergentis in senium, nella quale l’eretico diveniva un criminale, un ministro del Diavolo. L’inquisizione acquisì sempre più potere al punto che si cominciò a dover scrivere precisi manuali per le regole processuali. Il più importante di questi fu quello scritto dal domenicano Bernardo Gui (1261 ca. – 1331) e nel 1252 il papa Innocenzo IV (1200 – 1254), autorizzò l’uso della tortura per far confessare gli inquisiti.

P.: Ma San Domenico non c’entrava nulla in tutto questo.

E.: Francesco e Domenico, pur nella loro diversità, ponevano l’accento sul valore della povertà quale immagine di Cristo. Francesco rinunciava anche alla Scienza, che considerava una ricchezza, mentre Domenico descriveva la Scienza come un tesoro utile per trasmettere con maggiore chiarezza il messaggio evangelico, in una società avviatasi verso un’economia di mercato più ampia e capillare. A parte questo, sia Domenico che Francesco, avevano a cuore i poveri, e la carità divenne segno tangibile del loro operato. Le elemosine erano il miglior modo per aiutare gli indigenti. Come dicevo prima, era anche il mezzo per poter cancellare i propri peccati, utilizzando il povero quale strumento di salvezza per il suo benefattore. Ma che importa questo? Importante era aiutare chi non aveva più nulla. Questo è il messaggio più grande di Cristo.

P.: E tu? Anche tu beneficiavi delle elemosine per la salvezza delle anime dei donatori?

E.: Può darsi, ma come ti ho detto, non era questo quello che a me importava. Dopo la morte di mia moglie e di Lorenzo, ho sentito che Dio mi chiamava ad una vita di povertà e, attraverso essa, a poter assistere altri poveri. Ero diventato povero perché ero un lavoratore alla giornata, un artigiano di livello inferiore che si prestava a diversi tipi di servizi. Con la vecchiaia non riuscii più a lavorare, ma l’insegnamento evangelico mi aiutò a capire a quale sorte fossi destinato: essere vicino ai più umili, essere l’amico dei poveri, incrociare gli sguardi delle persone più bisognose per poter insegnare loro che non erano “scarti della società”, ma uomini in grazia di Dio.

P.: Non hai avuto la possibilità di mandare tuo figlio a scuola per dargli un futuro migliore?

E.: Non avevamo neppure i soldi per mangiare tutti i giorni. Sarebbe stato bello, però, vedere mio figlio saper leggere o scrivere. Erano tempi in cui le istituzioni comunali cercavano di assicurare alla cittadinanza una maggiore alfabetizzazione nella popolazione. Ne diventava un ottimo beneficio reciproco. Gli insegnanti, ai miei tempi, erano pagati molto bene, oltre ad avere benefici fiscali e varie esenzioni. Erano i magistri. Oh, era una cosa ben organizzata, sai? C’erano diversi gradi di istruzione. Ai primi livelli, si formavano i pueri, ai quali veniva insegnato a leggere e ad imparare i salmi penitenziali. Successivamente un rector, introduceva gli allievi al latino, alla grammatica, all’aritmetica e alla geometria. Non era più il vecchio sistema scolastico: a quei tempi si cercava soprattutto di dare ai giovani un forte insegnamento dei principi educativi. Si voleva condurli ad un corretto atteggiamento comportamentale nel contesto della vita civile. Era necessario, in particolar modo, per spegnere quei focolai di violenza e disordine dai quali i giovani si lasciavano facilmente istigare, orientandoli verso traguardi di utilità pubblica.

P.: E l’università?

E.: C’era molto interesse per gli studi superiori. Già prima che io nascessi, papi e imperatori organizzarono strutture universitarie nelle grandi città europee. Tornando proprio a Federico II, egli fondò un’università a Napoli ancora nel 1224. A livello di insegnamento le università prevedevano due livelli: al primo accedevano i giovani di 13 anni, i quali, raggiunto il quarto anno di studio, conseguivano il “baccellierato”. Seguivano altri sei o sette anni per raggiungere il titolo dottorale e la licentia docenti, con la quale si poteva insegnare.

P.: Indubbiamente le città universitarie avevano un prestigio più elevato rispetto alle altre.

E.: Certo, e questo accadeva soprattutto nelle città più popolose.

P.: Cosa intendi per città popolose? Quanti abitanti poteva avere una grande città?

E.: Negli ultimi anni della mia vita, si parlava spesso di città come Firenze, Milano o Parigi. Qui vivevano circa 100 mila abitanti, un’enormità. In Italia c’erano anche Venezia o Genova che arrivavano a 60 mila abitanti. Ma questi sono casi limite. La stragrande maggioranza delle città europee poteva contare su una popolazione tra i 15 e i 30 mila abitanti, poi c’erano una miriade di piccoli o piccolissimi villaggi. Le città erano i centri dello spirito laico, con dinamismi nuovi e nuove mentalità. Le città europee furono le città delle banche, della contabilità moderna e delle lettere di scambio. Furono le città del nascente capitalismo.

P.: Quindi circolava molta moneta, si organizzavano molti mercati.

E.: Era un sistema che agevolava tutti. I mercati, fin dal XII secolo, servivano a commercializzare quelle merci non disponibili in una determinata area e per questo motivo circolava contante. Ma più questo sistema divenne determinante, più i sovrani, assai oculatamente, beneficiarono città e mercati con esenzioni fiscali. Ne nacque un commercio che andò a favorire tutte le classi di cittadini e in particolar modo i banchieri che, grazie ad un sistema di attività creditizia tramite lettere commerciali, fedi di credito e lettere di cambio, agevolavano i commerci facendo arricchire tutti. Inoltre, i banchieri erano ben forniti di contante, necessario per avviare attività e scambi. A Venezia si cominciò a coniare il matapan, una moneta di buon argento che fu copiata dalle altre maggiori città divenendo la principale moneta di scambio. Così anche il re francese Luigi IX (1214 – 1270) fece coniare il “grosso tornese” che in breve diventò una moneta internazionale. La necessità di avere contante di sempre maggior valore per compensare lo sviluppo commerciale, portò alla fine, più o meno quando nacqui, alla ripresa del conio delle monete d’oro. E così Genova cominciò a battere il genovino, Firenze il fiorino, Venezia il ducato e così via. Queste monete d’oro furono riconosciute come valuta negoziabile nella maggior parte d’Europa.

P.: E la Chiesa, come rispondeva a tutto ciò?

E.: La Chiesa aveva i suoi problemi. Capiva che doveva chiudere un occhio di fronte a problemi come l’usura, la capitalizzazione, le attività bancarie. In fin dei conti, anch’essa necessitava di denaro per i propri progetti e la propria sostenibilità.

P.: Fu solo per una questione di denaro che scomunicò i Templari?

E.: Ah, i Templari, eroi ammantati dal dubbio e criminali avvolti dall’innocenza. I Cavalieri del Tempio erano gli unici a poter determinare l’autenticità delle reliquie. Un Templare e un Ospedaliero erano i due cavalieri che vegliavano e proteggevano la teca contenente il legno della Vera Croce custodita a Gerusalemme. Le disfatte ricevute in Terra Santa e soprattutto la perdita di San Giovanni d’Acri, ultimo baluardo cristiano in Medio Oriente, nel 1291, portarono a credere che, soprattutto i Templari, non dovevano più essere quell’ordine cavalleresco pieno di privilegi e ricchezze. Si tentò di fondere in un unico ordine Templari e Ospedalieri. Frate Jacques de Molay (1243 – 1314) rifiutò per timore di un diretto controllo del nuovo ordine da parte della corona francese. Nell’ottobre del 1307, dietro ordine segreto e illegale di re Filippo IV di Francia (1268 – 1314), tutti i Templari del paese vennero arrestati con accuse pesantissime: eresia, idolatria, atti carnali contro natura e venerazione di un idoletto simile a Satana (Baphomet). Nonostante l’opposizione di papa Clemente V (1260 – 1314), dopo un processo durato quasi 5 anni, Filippo condannò al rogo tutti i Templari, facendoli scomparire completamente dalla scena europea e incamerandone quasi tutti gli averi.

P.: Erano davvero ricchi?

E.: Più di ogni immaginazione, ma il denaro non era per loro. Essi vivevano in povertà.

P.: Anche la Chiesa era ricca, comunque.

E.: Per necessità.

P.: Sì, ma aveva anche un potere politico enorme.

E.: Potere politico? Bisogna distinguere tra potere secolare della nobiltà e potere temporale della Chiesa. Sono due concetti diversi, ma era nel corso delle cose che i due poteri si scontrassero di continuo. Verso la fine dei miei tempi c’era il papa Bonifacio VIII (1235 – 1303), il quale si trovò spesso ad imporre la forza della Chiesa sulla nobiltà. Ti racconto questa storia.

Papa Bonifacio, chiese ai re di Francia e d’Inghilterra di intraprendere una nuova crociata. I due re, oltre ad una serie di contrasti personali, non avevano il denaro necessario e, soprattutto Edoardo I, re d’Inghilterra (1239 – 1307), per recuperare fondi, tassò anche gli ecclesiastici. Ne venne fuori un putiferio. L’arcivescovo di Canterbury negò qualsiasi diritto di riscossione al clero. La disputa proseguì nel peggiore dei modi tra i re di Francia e Inghilterra. Bonifacio, alla fine, si propose quale intermediario. La mediazione venne accettata da entrambi i re e si stipulò una “pace perpetua”, decisamente a favore, però, del re francese. Le cose si complicarono quando proprio Filippo IV di Francia fece arrestare un abate amico del papa. Quest’ultimo reagì e per contro, il re francese, accusò il papa di eresia, convocando un concilio per giudicarlo. Era troppo. Bonifacio emanò la sua più famosa bolla Unam sanctam, in cui elaborò il suo più alto profilo politico e teologico, indicando come il papa fosse la personificazione della Chiesa, affermando così la preminenza su tutti gli altri poteri terreni. Lo scontro tra Francia e Vaticano arrivò ad Anagni, dove Bonifacio si era nel frattempo rifugiato. Era il 1303. Durante un drammatico incontro, il papa, con il crocifisso in mano, venne schiaffeggiato dal nobile romano Sciarra Colonna. Bonifacio, accompagnato sotto scorta a Roma il 18 settembre, moriva l’11 ottobre.

P.: Una storia incredibile, ma che fa comprendere come la Chiesa fosse costretta ad intervenire per orientare, attraverso il vangelo, un re, un borghese, un contadino o un mendicante. Poi cosa accadde?

E.: Quello che nessuno mai si sarebbe aspettato.

P.: Ovvero?

E.: Dopo la morte di Bonifacio venne eletto papa Benedetto XI che morì l’anno dopo a Perugia nel 1304. Proprio nella città umbra si tenne il conclave che dopo ben 11 mesi, sottoposto alle pesanti pressioni francesi, elesse l’arcivescono di Bordeaux che prese il nome di Clemente V (1260 – 1314). Egli allora non era a Perugia e si fece incoronare papa a Lione. Da lì egli si trasferì in Guascogna ed infine ad Avignone che dal 1309 diventerà sede pontificia al posto di Roma.

P.: Già, il periodo avignonese. Periodo contrastato dalla presenza di più papi.

E.: Sì. A Clemente V successe Giovanni XXII (1245 – 1334), un uomo energico ed intransigente che nella disputa per il trono di Germania tra Federico d’Asburgo e Ludovico il Bavaro, si schierò col primo che ebbe poi la peggio nello scontro finale. Ludovico, scomunicato da papa Giovanni, scese in Italia e si fece incoronare imperatore a Roma dove depose Giovanni e nominò un antipapa, Niccolò V (1260 – 1333). Ad Avignone seguirono altri papi, fino a che soltanto nel 1377, con Gregorio XI, la sede pontificia tornò a Roma.

P.: Cosa spinse l’ultimo papa avignonese a tornare a Roma?

E.: Molte furono le cause, ma soprattutto il ritorno fu dovuto ad una povera fanciulla toscana che ebbe un ruolo fondamentale.

P.: Chi era?

E.: Si chiamava Caterina di Jacopo di Benincasa, Santa Caterina da Siena! E’ una storia troppo lunga da raccontare, ma sappi che Caterina è compatrona d’Italia con San Francesco e compatrona d’Europa con San Benedetto, San Cirillo, San Metodio, Santa Brigida di Svezia e Santa Teresa benedetta della Croce.

P.: Un nome illustrissimo quello di Caterina.

E.: Solo un nome. Fu quello che ella riuscì a fare nella sua vita ad essere esempio per chiunque.

P.: Un ruolo difficile quello della donna nel Medioevo, vero?

E.: Una domanda ricca di insidie, ma cosa vuoi, io sono solo un povero che ha visto e forse compreso le contraddizioni del mio tempo. Sai chi era Graziano?

P.: No!

E.: Nato sul finire dell’ XI secolo, Graziano fu un illustre giurista. A partire dal 1139, iniziò la raccolta, l’ordinamento e l’armonizzazione di tutte le leggi ecclesiastiche. Nel suo codice, pur riconoscendo alle donne alcuni diritti, affermava l’incompatibilità tra il divino e il femminile. Anche Tommaso d’Aquino (1221 – 1274), nella sua elaborata versione aristotelica della biologia, affermava che la donna, in quanto “maschio mancato”, era destinata a incarichi subalterni, oltre ad essere impossibilitata ad assumere ruoli di mediazione tra Dio e gli uomini. In realtà, la donna, nel mio tempo, seppe farsi valere attraverso la sua saggezza, la sua intelligenza, la sua bontà e la sua grandezza. Sai che Margherita di Navarra (1128 – 1183), reggente del regno di Sicilia, nel giorno dell’incoronazione del figlio Guglielmo, proclamò un’amnistia generale, oltre alla liberazione dei prigionieri politici e alla restituzione dei beni di riscatto? Quante regine hanno regnato in nome dei propri figli! Ci sono state anche regine che hanno governato in modo diretto, come Eleonora di Provenza (1222 – 1291). Se riesci, leggi la sua storia, è un romanzo incredibile. Ma non c’erano solo regine. C’erano anche religiose, badesse, profetesse. Molte ebbero un ruolo importante nella renovatio ecclesiae, come la già citata Santa Caterina. Grande è stata anche Santa Brigida di Svezia (1303 ca. – 1373) che fondò l’ordine del SS. Salvatore nel quale la badessa era la rappresentazione di Maria. Riuscì a mettere in piedi una comunità religiosa che accoglieva monaci, diaconi, laici e religiose. Uomini e donne a rappresentare la Chiesa primitiva con a capo la badessa, quale figurazione della madre di Gesù e madre dei discepoli. E Guglielma da Milano (? – 1280)? Forse lei aveva un pochino esagerato. Si riteneva l’incarnazione dello Spirito Santo. Secondo i suoi discepoli sarebbe salita in Cielo nel giorno della Pentecoste del 1300 col compito di instaurare una nuova chiesa retta da una gerarchia femminile. La sua vicaria, Maifreda, si comportava come una papessa. Nel 1302 i maggiori esponenti di questa congrega vennero messi tutti al rogo.

Ti ho parlato di casi eclatanti, ma il vero compito della donna fu sempre quello di stare vicino ai figli. Senza la loro perseveranza, la loro pacatezza, la loro sagacia e il loro amore, l’intera umanità sarebbe solo un ricordo. E quando la donna, oltre alla famiglia, contribuiva anche ad amministrare la società, vi erano solo vantaggi. Dio dice: onora il padre e la madre. Non mi pare di intravvedere differenze.

P.: Grazie Enrico. Mi hai raccontato molte cose e fatto capire le dinamiche del tuo tempo. Cos’altro si può aggiungere?

E.: L’ultima parte della mia vita, come sai, l’ho dedicata alla carità. Quella vera, quella naturale, dove non era previsto alcun premio e alcun riconoscimento. Se dentro il tuo cuore scopri il vero valore della carità, non hai bisogno di altro nella vita. Il tuo premio sarà il dono dell’umiltà, quella più sincera, quella invisibile.

 

 

Bibliografia essenziale.

 

AA.VV, Il grande dizionario dei Santi, 2006

A cura di U. Eco, Il Medioevo, 2009

  1. Delort, La vita quotidiana nel Medioevo, 2011
  2. Le Goff, La civiltà dell’occidente medievale, 1981

A cura di J. Le Goff, L’uomo medievale, 2004

  1. Montanelli, R. Gervaso, L’Italia dei Comuni, 1966